CONSIGLI PER UN ASCOLTO

di Marco Ghilarducci

 

Ascoltai per la prima volta, ragazzino, dal mio Maestro di pianoforte il famoso aneddoto secondo il quale nel 1932, durante un recital a Budapest del pianista russo Vladimir Horowitz (Kiev, 1903 – New York, 1989), buona parte del pubblico in sala fu preda di una colossale suggestione collettiva, giurando in seguito di avere visto, nel mezzo dell’esecuzione della Sonata in si minore di Liszt, il fantasma del compositore posare la mano sul capo dell’interprete.

La Sonata in si minore, poema sinfonico per pianoforte di forma ciclica ispirato al mito di Faust, ci mise certo del suo, con i suoi temi evocativi di Faust, Margherita e Mefisto e dell’eterna lotta fra Bene e Male, fra Salvezza dell’Amore e Dannazione del Peccato; ma il magnetismo e il sulfureo bagaglio di “trucchi” del mestiere di Horowitz fecero sicuramente il resto.

Immaginavo la scena come fossi stato là, ma nutrivo più di un dubbio sulla sincerità di quelle testimonianze.

Dubbi fugati qualche mese dopo all’ascolto di una spettacolare e sconcertante interpretazione dal vivo del 1979, durante una tournée americana da cui è stato tratto un disco, di un altro brano lisztiano ispirato al mito di Faust (non sappiamo esattamente in quale sala, probabilmente alla Avery Fisher Hall di New York, alla quale d’ora in poi mi riferirò): il Mephisto Walzer. Pagina virtuosistica del 1859 fra le più rinomate ed eseguite, Mephisto Walzer veniva presentato da Horowitz non solo nella versione già “potenziata” e variata di Ferruccio Busoni (il più illustre pianista e compositore pianistico italiano a cavallo fra Ottocento e Novecento), ma con alcune sue stesse aggiunte per amplificarne i contrasti, le suggestioni e l’effetto pirotecnico. Operazione pienamente riuscita.

Sappiamo da testimonianze d’epoca di quanto le abilità tecniche e musicali di Liszt e Paganini potessero soggiogare e ipnotizzare gli ascoltatori, facendoli apparire come demiurghi capaci di plasmare il tempo e sfidare le leggi della fisica: tralasciando le leggende sui segreti accordi fra Paganini e il Diavolo in persona, basterebbe solo ricordare che l’allora studente Robert Schumann, incerto se abbandonarsi alla Poesia o alla Musica, decise per la seconda dopo un memorabile recital del violinista genovese. Con il suo virtuosismo e con tutte quelle aggiunte calibrate e sapientemente dosate di trilli, arpeggi e accordi nei punti giusti (come il terapeuta che manipolando trova il nodo nascosto e vi insiste), Horowitz riassume in sé quello che Liszt, Paganini e gli altri grandi virtuosi erano per la società borghese e industriale ottocentesca: lo Sciamano.

Quei Monstra in frac e panciotto, coperti e tributati di rose, ghirlande di fiori, grida e battiti di mani dopo il rito musicale, perpetuavano sotto i lampadari di cristallo una delle pratiche più antiche del mondo: il canto e il ballo guaritori del Mago che placa le tensioni della comunità.

Nel Mephisto Walzer di New York si può sentire come la tensione, nel suo alternarsi di vuoti e pieni, di “pianissimo” cristallini e trombe del Giudizio, è costruita e gestita da Horowitz (e da Liszt, e da Busoni) con tale maestria che gli ultimi, parossistici accordi – uno strepitìo di clusters aggiunti con premeditata sfacciataggine dal pianista – sono accompagnati da un boato più familiare a uno stadio che a una soirée: un tappo che salta e libera tutta l’energia emotiva accumulata (e non solo in quei dodici minuti di ascolto…) dal pubblico.

Come in una performance postmoderna, quel boato, un ruggito che solleva e amplifica quello finale della tastiera, si inserisce nell’esecuzione, vi si sovrappone e ne diviene parte, così che questa storica versione del Mephisto Walzer sarebbe da accreditarsi al collettivo Liszt-Busoni-Horowitz-Pubblico della Avery Fisher Hall.

Cosa c’entra Jimy Hendrix?

Hendrix può essere considerato il Paganini della chitarra elettrica degli anni Sessanta e non solo per le sue abilità tecniche. Mai mi sarei sognato di accostare la distesa umana di Woodstock al velluto della Fisher Hall, prima di ascoltare “davvero” la Sua chitarra di quel 18 agosto del 1969 e capire che quei due luoghi, quei due momenti apparentemente inconciliabili, sono in realtà sovrapponibili. Eroi di universi paralleli, Hendrix e Horowitz, entrambi virtuosi, entrambi maghi, entrambi sciamani, negli stessi anni, sconosciuti l’uno all’altro, giravano il mondo per espletare il rito guaritore che più è mancato alle comunità in questi Tempi difficili: il concerto.

 Buon ascolto,

Marco Ghilarducci

> Trovate il 1° Consiglio di Ascolto qui: SVIATOSLAV RICHTER | L’INFINITO SOTTO UNA LAMPADA